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Breve storia della capoeira
Musilbrasil.net - Giugno 2007

Mestre Chiquinho

mestre chiquinho

L'origine della capoeira si perde nella notte dei tempi e affonda le sue radici nella storia della Terra Brasilis, l'attuale Stato brasiliano. L'origine del nome Brasile deriva da quello dell'albero Caesalpinia chinata, nativo della mata atlântica, la foresta vergine che ne ricopriva completamente le regioni litoranee, chiamato comunemente pau brasil (albero brasil). Il nome deriva probabilmente dal colore rosso brace ( brasa ) della resina contenuta nel legno, ma non ci sono reali certezze riguardo quest'etimologia.

Il Brasile ufficialmente fu scoperto da Pedro Álvares Cabral , che sbarcò nell'attuale Santa Cruz de Cabràlia , nello stato di Bahia il 22 aprile del 1500.  Nei primi decenni la colonizzazione fu soltanto accennata, si stabilirono in oltreoceano piccoli gruppi di gesuiti portoghesi, con lo scopo di evangelizzare le popolazioni indigene, questo garantiva al Portogallo la buona fama di nazione che lottava per la diffusione dei principi cristiani.

La vera svolta si ebbe solo nella seconda metà del XVI sec, quando furono scoperte le prime miniere d'oro e pietre preziose e i coloni che abitavano la costa riconobbero le enormi risorse agricole del paese: la canna da zucchero, il caffè e il cacao che avrebbero guidato la storia economica, politica e sociale del Brasile per secoli.

Le enormi possibilità di guadagni offerte da quella nuova terra potevano essere sfruttate dai coloni portoghesi (nel frattempo le spedizioni "civili" si moltiplicarono) soltanto con grandi quantità di manodopera. Gli indigeni si rivelarono ben presto inadatti ai lavori forzati: fisicamente minuti e sfiancati dalle malattie europee che il loro sistema immunitario non aveva armi per combattere, erano anche difesi strenuamente dai gesuiti che per decenni avevano lottato per cristianizzarli.

La soluzione si trovò nell'importazione della manodopera dall'estero, in particolare dai domini coloniali d'oltremare. Nel primo periodo della tratta gli schiavi venivano principalmente dalla Guinea, nome generico dato a tutta quella zona dell'Africa occidentale a nord dell'equatore, inclusa tra il Senegal e l'Orange. I prigionieri in attesa di essere imbarcati cominciarono ad essere rinchiusi in fortezze-carcere sulla costa, come il famoso forte di São Jorge de Mina.

In seguito si passò al Congo e all'Angola, anch'esse zone dai contorni incerti e più vaste degli stati moderni. Nel terzo periodo si passarono alla Costa de Mina, comprendente l'antico Dahomey e i territori di lingua Yoruba. Nell'ultimo periodo (fino al 1850) la tratta si spostò all'attuale Nigeria e ancora al Dahomey, pur mantenendo alcuni antichi capisaldi, come l'Angola.

A Bahia e nel Nord-Este la maggior parte degli schiavi apparteneva alle popolazioni Yoruba, ma vi erano anche molti Mina e Mandinga. I Bantu erano diffusi in tutto il Brasile. I Dahomeani soprattutto nel Maranhão.  Inizialmente gli schiavi erano trovati da avventurieri afroportoghesi con spedizioni che dalla costa muovevano verso l'interno (ad esempio in Angola), ma col tempo divenne un vero e proprio commercio di cui si occupavano mercanti specializzati, che facevano da intermediari tra gli europei e i regni africani dell'interno.

Gli schiavi, infatti, erano spesso vittime di raid effettuati a scapito delle popolazioni vicine, ma anche persone deboli o indifese che non godevano di protezione come orfani o vedove, altre volte sudditi sfortunati o individui incriminati per infrazioni giudiziarie. Tutti questi uomini e donne erano scambiati per beni di prima necessità o armi da fuoco. In questo periodo caddero gli antichi imperi agricoli (Kongo, Oyo) in favore di stati mercantili come Asante e Dahomey.

Ci volle molto tempo perché gli stati africani reagissero a questo stato di cose: solo nel 1727 i sovrani del Dahomey fecero i primi tentativi di arginare la tratta degli schiavi. Nell'ultimo periodo della tratta i traffici venivano organizzati dagli stessi commercianti baiani. Le navi impiegate per il traffico erano comuni mercantili, poi sostituiti da brigantini, più veloci e leggeri. Le stive venivano adattate al nuovo utilizzo: lo spazio riservato era compreso tra i due ponti e raramente oltrepassava i 120 centimetri d'altezza, solitamente senza boccaporti e prese d'aria.

Per poter imbarcare il maggior numero di uomini, l'utilizzo dello spazio era tale che non era loro possibile neppure sdraiarsi. Prima di essere incatenati nella stiva gli schiavi venivano marchiati a fuoco, completamente spogliati e sommariamente visitati, solo in qualche caso veniva lasciato loro uno straccio per coprirsi. Solo donne e bambini avevano diritto di circolare liberamente nelle stive, gli uomini erano invece incatenati, ma saltuariamente portati in coperta per fare esercizio fisico e un paio di volte alla settimana agli schiavi veniva fatta una doccia collettiva.

Si calcola che durante il periodo del commercio degli schiavi (tra la fine del XVI e la seconda parte del XIX sec) più di due milioni di persone furono deportate in Brasile dall'Africa e distribuite sui tre principali porti brasiliani: Bahia, Recife e Rio de Janeiro. Un numero almeno uguale morì durante le traversate, per stenti o perché gettata in mare. A volte accadeva che alcuni schiavi riuscissero a ribellarsi agli aguzzini e a prendere possesso delle navi, ma spesso morivano alla deriva perché nessuno era capace di governarle.

Una volta a terra i portoghesi  si guardavano bene dal lasciare unite le persone appartenenti ad una stessa tribù, al fine di rendere più difficile la comunicazione e l'organizzazione per un'eventuale rivolta. Questi schiavi provenivano da diverse regioni africane e quindi possedevano culture differenti, parlavano lingue diverse tra loro, oltre al fatto che nella maggior parte dei casi facevano parte di tribù ed etnie nemiche tra loro. La loro unica forza era il desiderio di libertà.

Una volta messi all'asta e venduti, gli schiavi raggiungevano le fazenda, dove erano selezionati a seconda dei compiti ritenuti più adatti. Una parte era destinata ai lavori di casa, solitamente i più docili o le donne, gli altri, detti schiavi di eito, dovevano occuparsi dei lavori più duri, nei campi o nelle miniere. Questi erano costretti a vivere nelle senzala, edifici bassi e privi di pareti divisorie e finestre, spesso sovraffollate e sporche.

Esistevano anche schiavi di ganho, di guadagno, che avevano la possibilità di avere un impiego come manodopera o venditori, in cambio di parte dei guadagni. Agli schiavi era data anche la possibilità di comprare la libertà ai signori grazie al denaro guadagnato autonomamente, ma si trattava di una libertà per certi aspetti solo formale, che spesso i più ricchi calpestavano.

La vera schiavitù però agiva in modo più sottile, era una cultura della schiavitù. Gli africani e i loro discendenti erano umiliati da generazioni, gli uomini non potevano più avere una famiglia e veniva loro sottratto lo spazio sociale, erano mantenuti nell'ignoranza e non potevano decidere di loro stessi. Questo tipo di destrutturazione psicologica ha lasciato segni profondi nella cultura brasiliana.

Di contro, alle donne per certi aspetti risultò più facile tenersi stretta un'identità e un ruolo, grazie anche alla possibilità di avere figli o ai compiti differenti cui erano destinate, vale a dire il lavoro come domestiche, balie o cuoche. L'altra faccia della medaglia era però la facilità con cui potevano subire differenti abusi, ad esempio a sfondo sessuale, che segnarono indelebilmente la dignità di un popolo. A tutto questo si accompagnava naturalmente l'estrema quantità di lavoro fisico che era una costante ad ogni livello e per ogni individuo schiavizzato.